martedì 27 aprile 2010

Salone del Mobile 2010: Provocazioni o...pareri autorevoli?


Il Salone del mobile di Milano 2010 si avvia a chiudere il sipario: interpreti, spettatori e commentatori si danno il cambio sulla scena.


Dopo aver osservato , ammirato e molto descritto è arrivato il momento di cedere la parola a chi i protagonisti li interpreta e molto spesso rende loro la fama.



Quali le impressioni dei critici e dei giornalisti in materia?


Sembra che quest’anno il dibattito torni ad aprire una annosa questione, chiedendosi se, dopo la proclamazione della morte dell’arte, non sia arrivato il momento di comporre il requiem del design.

Contro-altare alle voci che acclamano l’esposizione e che hanno decretato il successo dell’edizione di quest’anno esistono, ed insistono su temi portanti con cui designer e clienti sono costretti a confrontarsi .
C’è chi pensa, che i designer odierni non siano altro che “nani sulle spalle dei giganti” e che si possano meritare tale appellativo a causa della loro operazione di complicazione / semplificazione viziosa degli oggetti, in un progressivo allontanamento dalla funzionalità degli stessi.





Utilizzando la notoria metafora che la distanza più breve tra due punti non è detto che sia la linea retta, ma talvolta l’arabesco, già si aprono due strade che il design ha, in entrambe le direzioni, percorso. Un ritorno alle Arts and Crafts di William Morris o al Bauhaus di Gropius e Mies Van der Rohe, sarebbe auspicabile?


Secondo Vittorio Sgarbi sarebbe preferibile rimandare al Bauhaus, ma a quello di Kandinskij e Paul Klee, quello che fa rientrare gli artisti all’interno delle officine dei progettisti, tecnomani, auspicando la rinascita di fucine di idee, che sole, potrebbero riportare il design allo splendore del bello.


Bello che non deve mai scordarsi, a suo avviso, l’aspetto della destinazione di uso, per evitare aborti e aberrazioni del gusto dal sapore posticcio di “repetita iuvant”, puro-esercizio-di-stile.

Soltanto il ritorno alla semplicità nel rispetto dell’aspetto di utilità e funzionalità, è in grado di ricreare un senso del gusto che allora, invece di nascondersi in giochi solipsistici rivolti alla costruzione di metalinguaggi, circoscritti tra loro, possano inconsapevolmente condurre al nuovo.

Non dissimile da questa posizione è chi che come G.B. Guerri , inerpicandosi in una ricostruzione storica del design, sottolinea come l’apice del suo successo sia collocabile in periodi in cui l’oggetto “di design” era paradossalmente inaccessibile a tutti, come se nel tradire uno dei suoi principi fondanti, riuscisse a dettare legge sulle tendenze del mercato. Il bello si afferma quando scende dall’alto, allora?



 
Attenzione alla banalità, grida. Gli artigiani non esistono da tempo ormai . Quando il disegno da solo entra in produzione e l’oggetto non è accompagnato da una ricerca più accurata, per contenerne i costi , il design si fa prodotto, perdendo la sua connotazione di “pezzo unico”. Risultato: un design, fenomeno di massa (modello Ikea), che causa una lunga sequenza di abitazioni in mostra con un unico comune difetto: sono tutte, l’una uguale all’altra . Dove sta il valore del bello allora?
Accanto a critici che sottolineano comunque, come i maggiori capolavori del design siano figli degli industriali italiani, che hanno avuto la capacità nel tempo di affinare le distanza tra sapienza progettuale e efficienza produttiva, non poteva mancare un’altra voce fuori dal coro degli adepti, come Stefano Zecchi, che ricorda al cliente di fare attenzione: il primo e ultimo designer della propria casa deve essere il soggetto che poi vi abita. Architetti e progettisti dovrebbero starsene il più possibile alla larga, poiché non essendo demiurghi e non conoscendo la vita delle persone per cui progettano, non possono interpretarne il gusto né realizzarne la rappresentazione più rispondente.
Pareri a-priori, sulla linea “dell’ importante è criticare”?...che tuttavia centrano argomenti a cui i designer stessi, rei inconsapevoli , cercano di trovare risposta.



Fabio Novembre, protagonista italiano di fama internazionale del Salone, non ha dubbi: riconsiderare il design come linguaggio, allontanandosi dai teorici della forma. Dagli anni ’70 è avvenuto ogni tipo di speculazione all’insegna del superfluo e del cambiamento e in un mondo che oggi non ha bisogno di nulla, occorre ripensare all’idea del design come comunicazione.


Idee che si traducono in segni e divengono simboli di un’epoca, per trasformarsi e svanire nel tempo riapparendo in un’altra , utilizzando nuovi mezzi. La ricerca, dunque, dovrebbe essere rivolta a rintracciare i segni indivisibili, alfabeto di nuove creazioni : un design più vicino all’arte.


Esempio di simboli di un’epoca: la sua seduta Abarth che rimanda al leggendario sedile Fiat.



Philipp Starck : dopo aver progettato di tutto, da architetto, designer, famoso per la realizzazione delle stanze dell’Eliseo, oggi insegnante, ,sorprende con la sua anacronistica affermazione:
è finito il tempo del product design “usa e getta”, sì allo studio dei materiali, ma il design del futuro si inserisce nell’ottica della durevolezza nel tempo. Philipp rinnega le sue opere quindi?


No al materiale plastico utilizzato nelle sue famose sedute, come Ghost prodotta per Kartell? Piuttosto un messaggio, frutto di una evoluzione, che fa i conti con la prossima scarsità di materie prime e che smachera l’idea del riciclabile, tacciandola come semplice menzogna del marketing. Esaltazione del design come oggetto progettato per durare nel tempo al fine di ricordare alle generazioni future la storia dalla quale provengono.
Stranamente designer e critici evidenziano un fil rouge sul quale muoversi, anteponendo risposte i primi alle questioni aperte dai secondi.


Tutto questo è:  SCENARIO: Salone del Mobile di Milano 2010. ATTORE PRINCIPALE: il Design. Studiato, criticato, re-inventato, ma soprattutto in una sorta di narcisismo enfatico che, fa comunque parlare di sé.

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