lunedì 20 settembre 2010

TOKIO DECADENCE? TOKIO METABOLIZING

Tokio a Venezia celebra il 50.Anniversario del movimento architettonico giapponese del Metabolizing.


Ryue Nishizawa e Yoshiharu Tsukamoto, curatori del Padiglione Giapponese alla 12.Biennale di Architettura, mettono in scena la città in evoluzione.

Veloci mutamenti, vorticose demolizioni e nuove edificazioni: la vita media di un palazzo a Tokio è di 26 anni.

La città che cambia al ritmo della frenesia di una delle società orientali “più occidentali”, esistenti al mondo.



La metropoli che rispecchia la cultura del capitalismo, del consumismo, della speculazione finanziaria, della tecnocrazia.

Alienazione, vacuità, crisi d’identità, conformismo ed eccessi: vizi e peccati della modernità, incarnata alla perfezione in Tokio Decadence.

Il romanzo, poi film di Riu Murakami, descrive esattamente la morbosità ripetitiva e le relative ossessioni perverse di questo mondo di plastica.

Dagli anni ’60, tuttavia, qualcuno ha cercato di dare una risposta all’inarrestabile morbida macchina, cominciando a pensare una metropoli che crescesse in relazione alle esigenze dei propri abitanti.

Il Padiglione giapponese realizzato dall’Atelier Bow-Wow e Nishizawa invita a procedere all’interno di una città virtuale, in cui sono rappresentati gli edifici della città attraverso gigantografie, plastici, fotografie e progetti. Lo spettatore gira all’interno dei corridoi, come percorrendo le strade della città ed interagisce con le case, focalizzando sull’influenza che la loro dimensione, forma ed estetica possono causare sull’individuo.

I giganti modelli di palazzi contemporanei proposti da Nishizawa e Tsukamoto offrono al visitatore una visione analitica e contemporaneamente sintetica della città, riflettendo sulla parcellizzazione del territorio urbano in lotti privati che sono oggetto di una trasformazione continua, che modifica ciclicamente l’assetto di Tokio.

L’idea dei due architetti, apparente spasmo filosofico, si incornicia nella prospettiva della corrente del Metabolismo che concepisce la città come un’entità vivente, come un organismo biomeccanico, le cui componenti essenziali possono essere sostituite e facilmente riassorbite, “metabolizzate” dalla struttura complessiva.

La struttura urbana della città giapponese si basa su un insieme di edifici indipendenti (c.d. grains) a differenza delle città europee, dove i palazzi sono nati dividendo muri continuativi, rendendo agevole mutamenti radicali delle architetture presenti e facendo largo a nuove edificazioni.
Il crollo dell’economia capitalistica rompe il ruolo rappresentativo di status sociale che l’architettura e i suoi prodotti hanno storicamente ricoperto. Lo studio e l’evoluzione di nuove forme tendono oggi a rivolgersi alla sostenibilità della vita dell’individuo.

Questa direzione nasce dalla comprensione che il paesaggio urbano di Tokio è stato modellato nel XX secolo su una distribuzione non uniforme del potere, o democrazia non-completa.

L’esigenza di miglioramento vuole superare tale incompletezza e raggiungere le necessità di sviluppo umano, facilitando la simbiosi tra ambiente-città, da guardare e soprattutto vivere come comunità.

Le linee guida del pensiero metabolista sono rintracciabili nel lavoro di uno dei suoi grandi fondatori, l’ architetto giapponese Kurokawa, che incentrò la propria estetica su quattro punti fondamentali: rilevanza, impermanenza, ricettività e dettaglio.

Tenendo fermi questi principi, mobilità in architettura diventa consapevolezza dell’impermanenza e tensione verso il tradizionale concetto giapponese di “invisibile”.

Gli accadimenti storici distruttivi e repentini che si sono succeduti in Giappone, il clima con stagioni nette che mutano radicalmente, eventi naturali e cataclismi hanno forgiato il sentimento giapponese di transitorietà della vita e causato l’impossibilità di credere sulla permanenza del visibile. Da qui deriva l’importanza data alla presenza di ciò che non appare, ma che esiste e si tramanda al di là della concretezza e della sua connotazione nel mondo fisico. Pensiero da non confondersi con rievocazioni deistiche a sfondo religioso, ma semplice comprensione della fragilità del visibile e realizzazione di ciò-che-non-è-tangibile come un’entità, che guida la vita, che continua generazione dopo generazione.

Il non visibile porterà pertanto a privilegiare il peso del c.d. non-spazio, come “il vuoto” tra gli edifici, non più termine accessorio all’interno della progettazione, ma elemento primario dell’alfabeto architettonico.

Il metabolismo oggi prende molto in considerazione il ruolo dello spazio mancante, perché proprio “il vuoto” puo’ diventare in extrema ratio luogo di avvicinamento dell’architettura all’individuo e strumento di connessione sociale.

Tsukamoto, Nishizawa e Kazuyo Sejima (curatrice di questa 12.edizione della Biennale di Architettura di Venezia svela la sua appartenenza infatti, con il sottotitolo della mostra “people meet in architecture”) sono i continuatori di un lavoro, premiato come “contributo significativo per l’umanità” che sancisce il passaggio dell’architettura dall’Età delle macchine all’Età della vita.

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